Ci sono i film belli, quelli pessimi, quelli che avrebbero potuto dare molto di più, quelli respingenti, quelli che hanno una loro bellezza nascosta, quelli complessi, gli incompresi e quelli profondi nonostante la loro semplicità. L’arte è grande, varia, e di proporzioni immense se non addirittura infinita, così come infinite sono le sue declinazioni.
Poi ci sono i film dei quali capisci poco o nulla, ma che ti piacciono ugualmente.
Sì, può succedere…
È proprio in quella categoria che potrei classificare questo Muere monstro muere, seconda pellicola dell’argentino Alejandro Fadel, che assurge al livello addirittura successivo, quello del film dove non capisci se qualcosa non torni o se sei tu a non essere abbastanza sveglio per sbrogliare la matassa.
Eppure la storia è semplice. Delle uccisioni, relative indagini, sospetti che inevitabilmente si confermano e finale a tema. Allora perché tutto risulta così criptico, confuso e addirittura nonsense una volta che giungono i titoli di coda? E perché tu rimani fisso a fissare lo schermo mano a mano che i minuti passano, dicendoti allo stesso tempo che, sì, non ci stai capendo una mazza, ma ne vuoi assolutamente di più?
Tra l’altro, di un film dalla lentezza esasperante, che si prende tutti i suoi tempi nel mostrare una storia più lineare di una ciocca di capelli after-piastra, ma che non fa pesare minimamente le sue due ore di durata.
Sarà quell’ambientazione semi agricola da cui Fadel ha attinto pienamente dal proprio vissuto, con tanto di leggende del relativo folklore, saranno quei volti, uno più brutto dell’altro ma che hanno un loro fascino personalissimo, anche nelle situazioni che richiedono un certo erotismo (menzione speciale per l’attrice Tania Casciani, libidinoso monociglio degno di Cattet/Forzani), o sarà quella storia investigativa che vuole promettere sempre più, lasciandoti con un “vuoto” che con me funziona sempre.
O quell’immagine iniziale di rara violenza che ti fa iniziare bello ringalluzzito.
Alejandro Fadel dimostra di essere un regista eccezionale inanellando un’inquadratura più bella dell’altra, tra rigore geometrico e lo sporco della fotografia (basti pensare al post-coito tra Cruz e Francisca o l’interrogatorio con la psichiatra) fino a delle esterne notturne incredibilmente evocative. Insomma, non capisco, ma guardo e già da sé è una ricchezza.
Oppure, la storia è (con tutti i problemi di un sovraccarico decisamente bulimico) semplicemente quella di un pugno di tizi che cercano un mostro, né più né meno, e già questo porta in scena tutte le implicazioni possibili dello scibile umano.
Cos’è un mostro, poi?
Fadel ci porta nelle vite di una manipolo di uomini e donne sporchi, poveri, combattuti e, dalle cere che portano, in un forte stato di stitichezza – ahah! Vivono in un ambiente a metà strada tra la civiltà e l’antica vita di campagna, svolgono triangoli mai del tutto chiariti, sono vittime di una depressione costante e hanno a che fare con un mondo che non sembrano comprendere e che li avvolge in un guanto di insensatezze. E c’è una componente sessuale che attraversa ogni scena, dalla fisiologia del mostro, financo alle uccisioni e dalle semplici interazioni tra la chiunque.
Forse il vero mostro è il mondo stesso, il caos che lo attraversa e l’impossibilità di trovare una risposta nella sua confusione, che si manifesta anche nelle vite e negli animi più placidi e tranquilli. Forse i mostri sono le nostre interazioni, mai del tutto chiarificatrici o portatrici di serenità, sempre avvolte in convenzioni e in un menefreghismo costante (tutti quelli che circondano Cruz si rivolgono a lui e lo consigliano in maniere a dir poco discutibili). Forse il mostro va cercato nel modo in cui il mondo cerca di entrare (ahia!) in noi.
«Mia mamma diceva: mostro è chi il mostro fa».
E così abbiamo Cruz, personaggio con un suo ambiguo candore, che nelle fattezze ricorda un primate proprio perché ha una sua dolcezza quasi primordiale, pur non essendo proprio un’acqua di fonte, insieme a quel personaggio che il male del mondo non ha saputi contenerlo in tutte le maniere.
Ci sono così tante implicazioni da poter creare un film a sé, e tutto questo solo nell’ipotizzare quello che potrebbe essere un eventuale senso della pellicola, così chiara ma allo stesso tempo incredibilmente ambigua in quello che vuole mostrare.
Viene da chiedersi se i “momenti di vuoto” di Cruz vogliano dire qualcosa, se la sua vita sessuale diventi veramente metafora di quanto espresso prima o voglia in realtà dire altro, se quelle geometrie così ricalcate in certe parti vogliano davvero simboleggiare il rigore e la crisi che le scoperte porteranno o, semplicemente, cosa significhino i motociclisti che compaiono una tantum…
La realtà è che il film non fa nulla per essere chiaro e gran parte del suo fascino (e della relativa incazzatura che porterà) dipende da questo. Sta a noi decidere come porgerci al lavoro di Fadel e se cadere trappola delle sequenze meravigliose che è comunque riuscito a creare. D’altronde, il cinema non è farsi affabulare dalla visione di qualcuno?
Poi se quello che il nostro ha voluto mettere in scena sia solo furba estetica senza sostanza, spetta alla sensibilità di ognuno decifrarlo. Ma rimane comunque un film che andrebbe divulgato, perché porta con sé una meraviglia personalissima.
E un design del mostro (che ci sia è un segreto di Pulcinella…) a suo modo grandioso, che richiama molto Beau is afraid… e di più non posso dire!
Sennò son cazzi.