“Ho avuto quello che ho vissuto“. Questa confessione e titolo eponimo di un libro autobiografico, uno degli ultimi, del grande poeta cileno Pablo Neruda, potrebbe essere un epigrafe all’opera e alla vita di Jesse A.Fernandez, all’uomo cosmopolita e all’artista poligrafo che è stato. Americano di nazionalità, Fernandez era cubano di nascita, precisamente dell’Havana, dove nacque nel 1925 da genitori spagnoli. Vita errante quella di Jesse (Jesus) che lo vide in USA, Mexico, Amazzonia, Asia, Spagna e Cuba. Un nomade, un “bandido“, come veniva chiamato dagli amici. Un uomo autentico, immerso nella sua epoca in modo totale, pregno sino al midollo delle sue idee politiche e artistiche, scomode a volte e sovversive per l’epoca. All’età di 17 anni, come tutti gli uomini autentici e i grandi creatori, prende in mano la sua vita e rinuncia ai suoi studi in ingegneria per trasferirsi a Cuba dopo alcuni anni vissuti in Spagna e in Usa. Intraprende la carriera di pittore ma, disgustato dal regime castrista, decide di partire, pur avendo costruito un ottimo rapporto interpersonale con Fidel Castro, seguendolo nei suoi viaggi nell’isola e redigendo alcuni reportages. Ecco l’essenza del personaggio, un uomo fedele ai principiche hanno guidato la sua arte e la sua vita; il distacco come condizione per la libertà e la libertà come condizione per la sua creazione artistica. Una vita vissuta come un opera d’arte. Distacchi che hanno pero’ creato delle amicizie durature e intense come quella con Pollok, Miro‘, Luis Bunuel e Marcel Duchamp. Pittore ma in primis fotografo ed era solito spiegare con questa frase la differenza sostanziale di queste arti: “La fotografia è un viaggio, la pittura è visionaria“. L’opera fotografica di Jesse A.Fernandez è riconosciuta universamente per due lavori: le Mummie di Palermo e i Ritratti, pubblicati rispettivamenti nel 1980 e nel 1984. Nel suo primo lavoro, guidato dal suo substrato surrealista e dalla sua ossessione per la morte, registra una delle “mise en scène” più insolite del mondo contemporaneo, con i corpi mummificati del convento dei Cappuccini di Palermo. Una tradizione che risale al XVI° secolo. Il fotografo raddoppia il gesto iniziale della mummificazione riducendo la distanza agonizzante tra la vita e la morte, mostrando con i loro volti come si possa resistere all’usura del tempo. Il secondo lavoro, i Ritratti, è una raccolta di immagini-icone del XX° secolo, icone come Billie Holiday, Elisabeth Taylor, Andy Wharol, Salvador Dalì e molti altri, pubblicati su giornali prestigiosi come il NY Times, Herald Tribune, Paris Match e Gamma. Un lavoro che rappresenta la generosità dell’uomo e un ammirazione totale verso il mondo dell’arte, e la coscienza tragica e impampabile che in ogni forma di vita esiste la precarietà. I suoi modelli non hanno mai realmente posato davanti all’obiettivo e questo rigore interpretativo si riassume in tre parole chiave: decoro, luce, inquadratura. Un rigore che lo ha sostenuto per tanti anni e che fanno di questo artista un grande ritrattista del XX° secolo, che ha fermato sulla pellicola attimi di personaggi mitici nell’ambito della letteratura, del cinema e dell’arte in generale. La Francia divenne la sua patria d’adozione ed Essaouira uno dei suoi luoghi di svago preferiti, confermato da molti scatti eseguiti nella antica Mogador durante i suoi viaggi da uomo “errante“.
Fonte: My Amazighen