L’altro ieri mentre stavo guidando riflettevo.
Anzi, l’altro ieri mentre stavo riflettendo guidavo.
Che non è solo una questione di priorità, ma proprio del rendersi conto di quanto la guida sia automatica e subordinata a qualsiasi pensiero, sempre.
Fate 100 km, curve su curve, rispettate stop, evitate pedoni, sorpassate e decelerate, vedete semafori, fate tutto questo e paradossalmente potete farlo senza che ve ne siate accorti.
Sempre che in quel momento, in quei momenti, la vostra mente stesse pensando a qualcos’altro.
E io pensavo al grottesco.
Mi chiedevo come mai io ami tanto questa condizione/situazione, questa sproporzione, questa caricatura.
Dopo un pò ho avuto l’intuizione. La amo perchè ho paura di affrontare la vita. E quindi per non vedere in faccia l’esistenza per come davvero è io la deformo, come gli specchi dei luna park. Non è un caso, ad esempio, che nei Tipi da Videoteca io abbia trattato (e tratterò) con divertimento, scazzo, voglia di caricaturare e anche un piccolo di tenerezza persone che in realtà mi hanno rubato migliaia d’euro, minacciato di morte o sequestrato per un quarto d’ora in macchina con forbici al collo. Sublimazione. Ecco, anche sublimare ci sta bene, ma non nel senso metaforico del termine ma proprio in quello chimico. Io faccio diventare le cose solide aeriformi, per paura forse di farmi male con la loro solidità.
Che poi riesco nel paradosso di rendere sì le cose importanti grottesche e divertenti ma riuscire comunque a starci ancora più male.
Poi però mentre stavo infierendo su me stesso con questi pensieri, probabilmente allo scatto del verde di un semaforo mi è venuta in mente un’altra cosa. In realtà amo il grottesco non solo perchè mi permette di “aggirare” la vita, ma anche perchè rappresenta la condizione umana (come definirlo?) più rapsodica e completa che possa esistere.
Del grottesco puoi ridere.
Del grottesco puoi aver paura.
Del grottesco puoi provare un’infinita tenerezza.
Del grottesco puoi piangere.
Del grottesco puoi provare ripugnanza.
Del grottesco puoi riflettere.
E, attenzione, la magia del grottesco è che puoi avere tutte queste sensazioni contemporaneamente, nella stessa immagine o situazione.
Sì Giuseppe, ecco il motivo.
E ora attento che sta passando una vecchietta sulle strisce pedonali.
Le stesse mie riflessioni le aveva già probabilmente fatte un piccione seduto sul ramo.
Mentre tubava.
E quel piccione, con un pizzico di fantasia, potremmo identificarlo con un regista svedese 70enne che negli ultimi 15 anni ha provato a riflettere sulla nostra condizione esistenziale.
“Essere un essere umano”
Già.
E quello che è sicuro è che dalla trilogia anderssoniana viene fuori un’umanità derelitta, spenta, morta dentro, priva di sbalzi vitali, abitudinaria, anche abbastanza umile nella sua prostrazione, sconfitta, inerme, banale e anche generalmente stupida.
Anche le stesse cose sembrano accadere con fatica, come piccoli avvenimenti in una vita che è come un giro di pista a marcia indietro.
Come in You, The Living tutto sembra fare pendant con queste esistenze, gli ambienti freddi e spogli, l’assenza di colore anche nel vestiario (vedere il pubblico del teatro ad esempio), le stesse facce delle persone, bianche da morire, i negozi privi di attrattiva, le strade deserte. Non c’è niente di acceso, tutto è spento.
I personaggi anderssoniani sono personaggi che si muovono poco, lentamente e malvolentieri, sono personaggi che stanno sempre ad osservare (in ogni scena per uno che parla ce ne sono 20 che lo osservano), come fossero spenti spettatori di uno spettacolo comunque non attraente.
E anche extradiegesi il pendant rimane, con questa inquadratura fissa, ferma, priva di vita, un quadretto dietro l’altro che però nemmeno al suo interno pare muoversi troppo, più una natura morta che altro.
Infelicità.
Ma quello che ho notato è che Andersson mostra sì infelicità in ogni suo personaggio e situazione, mostra sempre infelicità in primo piano, ma nel secondo si ha la sensazione che invece, la felicità, o quantomeno la vitalità, sia possibile.
Ci sono 5 telefonate nel film e in ognuna, ma veramente in ognuna, colui che parla dice all’interlocutore; “Sono contento che stiate bene” come se la felicità, la serenità, lo star bene in fondo esistano, ma sempre altrove, a noi non tocca. E non è un caso che per accentuare il contrasto queste telefonate le faccia una ragazza piangente in terra, un ex comandante di nave depresso, un uomo con una pistola in mano pronto ad uccidersi, una coppia derelitta.
Attenzione, il film non è triste, anzi, io mi sono fatto parecchie risate, ma proprio per il discorso che facevo all’inizio, il grottesco è un insieme di cose, non una soltanto.
E ad accentuare questa vitalità soltanto altrove c’è anche la scena degli uomini che ridono grassamente al ristorante, in secondo piano sia visivamente che sonoramente.
Ed anche i due principali personaggi, i rappresentanti di articoli carnevalizi, sono un pò l’emblema di tutto questo. Vogliono vendere divertimento (sempre l’altrove, ancora) quando loro stessi sono due zombie che fanno fatica a vivere. Il loro sacchetto delle risate è l’unico modo che abbiamo in Andersson per sentirle quelle risate, perchè altrimenti, quelle vere, quelle umane e non quelle finte, sono dentro un sacco sempre vuoto.
Poi, all’improvviso, il film diventa qualcos’altro.
La scena (magnifica, veramente magnifica, specie nel controcampo riflesso sullo specchio) del terribile sogno dei coloni che bruciano i neGri sotto gli occhi divertiti e interessati dei ricconi (il potere) è un cambiamento repentino che non mi aspettavo.
Ma porta a una riflessione importante di uno dei due rappresentanti: “E’ giusto servirsi delle persone soltanto per il proprio piacere personale?”. E’ come se quel personaggio, ai confini della demenza, con quel sogno abbia avuto un’illuminazione, uno squarcio che gli abbia permesso di vedere meglio la propria esistenza e quella di tutti.
“Nessuno chiedeva perdono” aveva detto poco prima nella sua stanza, come se a questa esistenza repressa, basata su sopraffazioni e violenza, faccia da contraltare un’umanità cinica, barbara, ricca e menefreghista che sta ad osservare e agire senza alcun rimorso (anche la scimmia forse è da vedere in questo senso).
Poi arriva il finale, quello vero, quello del mercoledì che è tornato di nuovo, quello dell’abitudinarietà, della mancanza di interessi, del grigio dominante.
Dell’assenza di vitalità.
Ma in 2 film di Andersson che ho visto, in oltre 3 ore, io in una scena, in una sola scena, la vitalità, o forse addirittura la felicità, l’ho vista.
E’ in queste bambine che fanno le bolle di sapone sul balcone.
Ridono, soffiano e saltano.
Sì, è una scena felice, senza controindicazioni.
Ma è una felicità identica alle loro bolle di sapone.
Che se mentre cade giù provi a prenderla è quasi inafferrabile.
E se riesci a prenderla, a fermarla, svanirà appena poi.