Riproporre in live action nel 2015 l’iconica fiaba di Cenerentola: chi meglio del barocco shakespeariano Kenneth Branagh per gestire questa operazione commerciale targata Disney? Branagh, maestro del teatrale e delle commedie in costume, passa da Mary Shelley alla Marvel per finire nella casa di Topolino e ritrovarsi in mano uno dei più ambiziosi progetti degli ultimi anni: ma la produzione ha fatto male i conti, pensando che qualche fantastica scenografia (ad opera di Dante Ferretti), dei costumi sfarzosi ed incantevoli tempestati di lucine al led (quello della fata madrina) e di Swarovski (quello di Cenerentola), una matrigna da Premio Oscar e dei deliziosi topini in CGI potessero bastare per accontentare un pubblico di età superiore ai sei o sette anni. Invece, purtroppo, non è così. Se da un lato questa nuova Cenerentola può contare sulla sfarzosa composizione di Branagh e dei collaboratori che hanno partecipato al film, dall’altro la sceneggiatura di Chris Weitz non riesce a sostenere l’intero castello costruito attorno ad essa, traballando e barcollando dove invece non dovrebbe.
In questo modo la parabola di “coraggio e gentilezza” diventa invece sinonimo di “ingenuità e servilismo”, poiché sul finale, nel fatidico momento del riscatto morale, la gentilezza viene meno da parte della protagonista a favore di un ben più remunerativo egoismo. Dove avviene realmente, quindi, il passaggio emotivo, il cambiamento di Ella, nel momento in cui decide che alzare la testa e smettere di accusare colpi è comunque affine al significato di gentilezza inculcatole da sua madre poco prima di morire? E in quale preciso momento il palazzo reale diventa più importante della casa di famiglia, dopo che la protagonista ha ribadito più volte di sopportare le angherie della matrigna e delle sorellastre solo per amore di quel luogo, di proprietà dei suoi avi da più di duecento anni e ormai unico ricordo del padre? Il film parte pieno di buoni propositi, bei sentimenti e importanti insegnamenti morali, ma decide di abbandonare con gentilezza quel coraggio che sostiene la prima parte del film a favore di una lieto fine frettoloso, già noto e poco profondo. Nemmeno i dialoghi (trascurando il fatto che Ella parli più coi topi che con le sorrellastre) riescono a veicolare l’audacia del prodotto, la quale risiede per buona parte nella profondità e nelle motivazioni della perfida Madame, matrigna che può contare sull’eccezionale presenza scenica e performance di Cate Blanchett, magnetica donna corrosa dal dolore e incattivita da un’esistenza priva di soddisfazioni, che però non riesce ad avere il giusto spazio e le giuste parole per esprimere tutto il suo disappunto e il suo odio nei confronti di una vita ingiusta. Lo so, quello che sto per scrivere non è il massimo, ma se l’audacia disneyana di un tempo avesse ispirato i produttori e gli sceneggiatori ad approfondire quel ruolo (magari rendendola protagonista, come in Maleficent), non saremmo certamente di fronte ad un capolavoro, ma potremmo comunque discutere di un prodotto più interessante ed apprezzabile di questo scialbo e superfluo film, così fintamente gentile e coraggioso, consigliato solo se avete delle bambine che devono sognare un po’. Ma non esagerate con i sogni, perché la realtà è ben diversa. E Madame lo sa, anche se la voce fuori campo della fata Madrina Helena Bonham Carter occupa tutti gli spazi in cui la povera vedova avrebbe potuto dirlo.
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