Per la giovanissima Domenica Bertè, detta Mimì, nata a Bagnara Calabra il 20 settembre 1947, l’approdo al mondo della discografia ufficiale si rivela tutt’altro che esaltante. Già nota nelle Marche come bambina prodigio (la sua prima partecipazione radiofonica risale al 1953, quando fu scelta fra le alunne della Scuola elementare di Porto Recanati per cantare in diretta nazionale una Ninna nanna al Bambino Gesù) ed ancora di più come solista nelle feste di piazza, la piccola Bertè, nell’inverno del ’61, raggiunge Milano, decisa ad ottenere il suo primo contratto discografico. Ma la delusione, in quel freddo giorno di permanenza nella città lombarda, è cocente. Scioccante per i suoi ingenui sogni di bambina. Senza aver fissato un appuntamento, nessuna delle case discografiche interpellate le concede un’audizione. E a nulla serve il fittissimo curriculum vitae sottoposto all’attenzione delle numerose segretarie incontrate nel corso della giornata. Curriculum in cui figurano, fra gli altri, due piazzamenti d’onore al “Festival del dilettante”, decine di serate come cantante della band “La Mela”, un gruppo abbastanza noto nell’anconetano, e un repertorio di oltre sessanta canzoni italiane e inglesi. Niente. Nessuno vuole ascoltarla. Così, nel giro di poche ore, quella manciata di “no” è sufficiente a spezzarle il cuore. L’indomani, tra le sette e le otto del mattino, quand’è ormai giunto il momento di ritornare a casa, un’ultima scorsa veloce all’elenco del telefono le permette di notare il recapito del maestro Carlo Alberto Rossi, fondatore e proprietario della casa discografica Car-Juke Box. “Mi disse se ero matta a tirarlo giù dal letto a quell’ora. Io gli raccontai quello che era accaduto il giorno prima e come poche ore fossero bastate a spezzare le mie speranze. Così, lo implorai di farmi un provino”. Il maestro Rossi, pur di liberarsi di quel marmocchio, che aveva osato svegliarlo così presto, le fissa un’audizione per la stessa mattinata. “Mi raggiunga in via Barletta 11, ma adesso mi lasci dormire!”. Nella saletta delle audizioni, madre e figlia vengono accolte dal pianista Maraviglia, che a quei tempi è l’accompagnatore di Luciano Tajoli. “Vediamo cosa sai fare”, esordisce Rossi, e così la piccola Bertè ha finalmente l’occasione di esibirsi dinanzi a un vero discografico. Poche ore dopo è già pronto e firmato il suo primo contratto discografico, che prevede anzitutto un periodo di prova come vocalist in un importante locale di Rimini, il “Whisky-Juke Box”, e, a seguire, il vero e proprio battesimo su vinile. “Ce ne sarebbe voluto di tempo prima di ‘arrivare’, ma mentre il treno mi riportava ad Ancona sognavo ad occhi aperti. Vedevo grandi titoli sui giornali, migliaia di ammiratori che mi attorniavano, i muri tappezzati di manifesti con la mia immagine. Sfiorai il cielo con un dito…”. L’esperienza riminese si rivela esaltante, al punto che, nell’autunno del ’63, Rossi la ritiene finalmente idonea alla sala d’incisione. “Questa è Mimì Bertè” recitano le copertine dei suoi primi dischi, annunciando la nascita di un piccolo grande talento. “Lontani dal resto del mondo” e “I miei baci non puoi scordare”, traduzioni di due brani esteri tratti dal repertorio di Steve Lawrence, Eydie Gorme e Johnny Tillotson, sono i titoli inclusi nel suo primo 45 giri. La promozione è affidata soprattutto a riviste per i giovani come “Tuttamusica”. Ma il primo ad accogersi di lei è il settimanale “Bolero Film”, che il 10 novembre 1963 segnala l’uscita del suo primo disco, definendola “un’esordiente destinata a esplodere”. Il secondo singolo comprende un brano tipicamente adolescenziale, “Insieme (televisione con mamma e papà)”, tratto dal repertorio di Billy Fury, e la sua prima incisione in lingua inglese, “Let me tell you”, un azzardo per un’interprete di appena sedici anni. Ma la critica è benevola: “Sorrisi e Canzoni” la definisce “cantante dallo stile incisivo e graffiante, da futura leonessa”. L’inedita “You are my boy”, lanciata pochi mesi dopo al “Cantastampa”, le permette di farsi notare ulteriormente dalla stampa nazionale, malgrado il testo, tipicamente adolescenziale, del brano in concorso. La piena affermazione coincide, però, con l’incisione del suo terzo 45 giri, lanciato da “Il magone”, un lento twist, scritto da Rino Icardi e Gianni Guarnieri, che viene pubblicato nel maggio 1964 a seguito della vittoria conseguita al “Festival di Bellaria”, già trampolino di lancio per Gianni Morandi. Pochi giorni dopo, la rubrica televisiva della Rai, “Tv 7”, le dedica il primo reportage della carriera, intitolato “Voglio essere un cantante”. Sfuma intanto il progetto ambizioso di incidere un primo 33 giri. I brani, già registrati, finiscono in archivio e vi restano per oltre trent’anni. La tv la attende a “Teatro 10” e “Studio uno” per il lancio di “Ed ora che abbiamo litigato”, un mediocre surf d’importazione, adattato all’italiano da Gian Pieretti. Meglio la facciata B, “Non pentirti dopo”, traduzione della più famosa “Chain Gang” di Sam Cooke. Alla “Ribalta per Sanremo” si innamora di Leo Sardo. “Ero entrata in finale e c’era un premio anche per me. Quando fui chiamata sul palco, per ritirare il premio, io non mi presentai e Carlo Alberto Rossi dovette intervenire al posto mio, giustificandomi in qualche modo: disse che ero svenuta. Invece ero andata a passeggiare sul lido con Leo, mano nella mano come gli innamorati di Peynet, dimentica di tutto. Quando tornai, Carlo Alberto Rossi, furente, mi mollò un ceffone. Ma non era capace di essere cattivo e, vedendo che ero scoppiata in lacrime, mi portò, per consolarmi, a mangiare la pizza”. Questo episodio non la priva dell’entusiasmo. A dicembre, infatti, la Bertè è al “Festival di Malta”: l’ultimo concorso sostenuto sotto la direzione artistica di Carlo Alberto Rossi. “Avevo notato – ricorda Rossi – che non riuscivo a gestirla come meritava. Il ruolo di ragazzina yé-yé non le si addiceva, perché la sua vocalità possedeva qualcosa di palesemente ‘drammatico’ già da allora. Coniugare questa sua magnifica peculiarità con le esigenze della moda musicale del momento era decisamente arduo. Così le nostre strade si divisero”. Nel frattempo passa alla Durium, ma il cambio della casa discografica non opera mutamenti significativi, al punto che anche l’unico 45 inciso per la nuova etichetta, lanciato dal brano “Non sarà tardi”, si rivela un flop. Una possibilità di riscatto è alle porte nella primavera del ’66, quando la cantante si prepara a incidere “Riderà”, poi ceduta a Little Tony e divenuta un enorme successo discografico. La delusione le consiglia una fase di silenzio che dura fino al 1968, quando, più consapevole sulla strada da percorrere, decide di riprovarci con una formazione artistica a tre, formata assieme alla sorella Loredana e all’inseparabile amico Renato Zero. Nel 1969, torna a Milano, dove firma un contratto con la Esse Records. Incide due brani scritti da lei stessa in collaborazione con giovani musicisti di allora. Si tratta di “Coriandoli spenti” e “L’argomento dell’amore”, la cui pubblicazione è prevista per l’autunno. Ma i problemi giudiziari che la cantante deve affrontare nell’estate del ’69 (quattro mesi di carcere per un quarto di spinello, che – si disse – qualcuno le aveva infilato nella borsa) inducono i discografici ad annullarle il contratto. Gli amici la abbandonano. Anzi la evitano come un’appestata. Il solo a rimanerle vicino è Toto Torquati, un eccellente pianista e organista, cieco dalla nascita, assieme al quale la Bertè continua a esibirsi come cantante solista. “Fu allora – ricorderà molti anni la Martini – che iniziai a interpretare i brani che piacevano a me, dato che ero una ragazza qualsiasi che cantava per il gusto di dire qualcosa attraverso la musica che sentiva più congeniale”. Nacque così la formazione Domenica & Toto Torquati Trio, che iniziò a girare l’Italia con un repertorio incentrato sul fior fiore della musica internazionale: Beatles, Ella Fitzgerald, Sarah Vaughan, Aretha Franklin e soprattutto Etta James, che le ispirava sempre la stessa visione. “Sognavo di cantare con la sua voce davanti ai dirigenti discografici e questi impazzivano per me…”. “Ma i sogni (non) sono solo sogni”, diversamente da quanto declamava il buon Tenco, che pure di Mimì Bertè era stato uno degli artisti più amati. E infatti, proprio quando lei ha ormai deciso di continuare a cantare per il solo gusto di piacere a sé stessa (nel 1970, ben due erano state le case discografiche che le avevano cosigliato di… andare a lavorare) il magico incontro con Alberigo Crocetta le cambia radicalmente la vita, trasformandola in vedette internazionale. Internazionale come quel suo nome d’arte, Mia Martini, che Crocetta le impone a modo suo: “Non vorrai mica continuare a farti ridere dietro con un nome da cantante d’operetta!”. L’importante, per Crocetta, era che nome e cognome avessero la stessa iniziale. Lo aveva preteso per Patty Pravo e, adesso, lo pretendeva anche per quella stralunata ragazza vestita di pianto, che, salita sulla pedana del “Piper 2000” di Viareggio, lo aveva conquistato con quel suo canto potente e rabbioso, dolce e vellutato da far invidia alle Sirene di Ulisse. Con premesse tali, il contratto con la Rca si rivela una formalità, coronata pochi giorni dopo dalla registrazione di un Q-disk (una sorta di mini long-playing, formato da quattro brani) di covers tratte dal repertorio dei Beatles e della James Gang. Un documento di sconcertante bravura, registrato dal vivo, con i componenti del suo primo complesso, “I Posteri”, rimasto per oltre trent’anni in archivio e recuperato, sia pure in parte, nella recente raccolta di inediti “Canzoni segrete”. Nel maggio 1971 si aggiudica a Viareggio il primo “Festival d’avanguardia e nuove tendenze” con “Padre davvero”. La Rai la censura, la critica la adora e la promuove al “Cantagiro”. Si innamora di lei Lucio Battisti, che la scrittura nel suo unico speciale televisivo trasmesso da viale Mazzini. È lì che la cantante conosce Bruno Lauzi, raffinato cantautore genovese, destinato a divenire l’autore più importanti della sua carriera. Il suo primo album, “Oltre la collina”, è quasi interamente scritto da Claudio Baglioni, all’epoca perfetto sconosciuto. Autore di canzoni intense e disperatissime, come “Lacrime di marzo” e “Testamento”, ma anche foriere di speranza come la stessa title-track e “Gesù è mio fratello”, titolo scelto per il suo nuovo 45 giri. Ma l’incanto dura poco. Crocetta interrompe la sua collaborazione con la Rca ed emigra alla Ricordi di Milano. Mia lo segue. Ma per lei non sarà un errore. Nella nuova casa discografica, un ambiente artistico stimolante, unito ai buoni consigli del direttore artistico Gianni Sanjust, crea le fondamenta del suo periodo discografico più felice. Dal quel momento, infatti, le vittorie si susseguono l’una dopo l’altra. “Piccolo uomo” la proclama regina del Festivalbar nell’estate del 1972. “Donna sola”, gemma blues interpretata magistralmente, la vede trionfare al “Festival di Venezia”, mentre “Nel mondo una cosa”, uno dei suoi album più belli, la assicura il “Premio della critica discografica” con perle del calibro di “Amanti” e “Tu che sei sempre tu”. Il 1973 non è meno ricco di soddisfazioni. La nuova vittoria al Festivalbar, con la struggente “Minuetto”, le assicura un primato a tutt’oggi insuperato. La Martini è infatti l’unica cantante ad aver vinto il Festivalbar per due edizioni consecutive. Altrettanto fortunato è l’album “Il giorno dopo”, il suo inno alla speranza, infarcito di canzoni stupende e poco note, come “Bolero”, “Dove il cielo va a finire”, “Il guerriero” e “La malattia”, una delle prime canzoni italiane dedicate al tema, all’epoca censuratissimo, della tossicodipendenza. Nella tavernetta di Dario Baldan Bembo, nella primavera del ’74, nascono intanto il testo e la musica della raffinata “Inno”, brano di punta del suo nuovo 45 giri, nonché incipit dell’album “E’ proprio come vivere”, registrato a Milano con la sua nuova band, gli Expo 80. Sono anni molto intensi anche dal punto di vista delle incisioni in lingua straniera: “Nel mondo, una cosa” viene tradotto quasi integralmente in spagnolo assieme alla più recente “Minuetto”, che Mia ha già lanciato in Francia col titolo “Tu t’en vas quand tu veux”. Per l’occasione la stampa francese la definisce “la nuova Edith Piaf venuta dal paese del sole”, mentre la stampa italiana, avvezza al pettegolezzo più becero, le dedicava le copertine dei rotocalchi scandalistici, presentandola come “la rivale di Orietta Berti”. Nel 1975, la vittoria al referendum di “Tv Sorrisi e canzoni”, “Vota la voce”, la proclama “cantante più popolare dell’anno” assieme a Claudio Baglioni. Nello stesso periodo, viene scritturata dalla Rai per lo spettacolo “Compagnia stabile della canzone”, assieme a Riccardo Cocciante e Gino Paoli. Il “Premio della critica internazionale” di Palma de Majorca, conferitole per il brano “Nevicate” omaggia intanto la “qualità” del suo album più recente: quel “Sensi e controsensi” che, lanciato nel gennaio 1975 dalla solare “Al mondo”, viene definito dalla stessa Mia “l’album più bello e raffinato, almeno dal punto di vista della resa sonora”. La rottura con la Ricordi risale all’autunno del ’75, conseguentemente alla commercializzazione dell’album “Un altro giorno con me”. Pochissime canzoni, fra quelle veramente amate dalla cantante, finiscono nell’album, tra cui “Questi miei pensieri”, ispirata a “La luna e i falò” di Cesare Pavese, e “Veni sonne di la muntagnella”, una struggente ninna nanna di Bagnara calabra, suo paese d’origine. L’assurda filosofia sostenuta in quel periodo dall’editoria musicale la porta all’esasperazione. Finiscono così in archivio brani stupendi, come “Eppure stiamo insieme”,” Dire no” e “Aiutami” (solo di recente recuperati nella raccolta di inediti “Canzoni segrete”), mentre pezzi di tendenza le vengono imposti dall’alto per la promozione discografica. Prima fra tutte una poco riuscita versione italiana dell’hit “Dancin’ (on a Saturday Night)”. Lei, testarda e coerente come nessuna, regge il gioco solo per poco, decidendo, infine, di interrompere la collaborazione con la casa discografica milanese. Un errore che reca alla cantante centinaia di milioni di debiti. Ad uscirne vincitrice è solo la sua dignità artistica. Per il resto, sono solo guai. A quel punto, rientra alla Rca, riprendendo il discorso musicale interrotto quattro anni prima. Dal ’76 al ’77 alterna raffinate canzoni d’amore (“Che vuoi che sia se t’ho aspettato tanto” e “Per amarti”) a pezzi di forte rottura come “lo donna io persona” e “Libera”, presentata all’Eurofestival e velatamente giocata sul tema dell’aborto. In chiave ‘femminista’ è anche concepito il testo di “Ritratto di donna”, che trionfa al “Yamaha Festival” di Tokyo nell’edizione 1977. Nello stesso periodo, chiamata in Francia per promuovere l’album “Per amarti”, viene notata da Charles Aznavour che ne fa una stella di fama europea, con un memorabile mese di repliche all’Olympia di Parigi: il tempio della musica internazionale. È in questo periodo che la cantante conosce Ivano Fossati, suo grande amore che la indirizza musicalmente verso mete totalmente diverse rispetto al passato. L’immagine più popolare di Mia Martini svanisce quasi di colpo. È infatti irriconoscibile nella fase di promozione dell’album “Danza”, interamente scritto da Fossati. Il quale le dona anche testo e musica de “La costruzione di un amore”, il suo testamento spirituale. Non risulta inferiore “E non finisce mica il cielo”, che nel 1982, a Sanremo, le fa meritare un riconoscimento creato per l’occasione: il “Premio della critca giornalistica”, oggi meritatamente intestato a suo nome. È sempre Fossati che la incoraggia all’autoscrittura delle canzoni. Un’esperienza determinante per lei, che culmina nella realizzazione del suo primo e unico album come cantautrice, “Mimì”, edito nel 1981 dalla Ddd, la sua nuova casa discografica, fondata dall’amico Roberto Galanti. È lì che Mia ritrova un po’ della serenità perduta dopo il difficile intervento alle corde vocali subìto all’inizio degli anni Ottanta. “Canto per chi mi ha tradito/ e poi ripreso/ per chi mi ha lasciato troppe volte/ per chi mi ha offesa”, recita una delle canzoni più belle dell’album. Tutta la sua storia di donna e di artista è racchiusa in quelle parole. E nella dedica al figlio mai avuto: “Ragazzo mio, bambino mio/ io canto per te…”. Il Festival di Sanremo getta intanto le basi per un rilancio che raggiunge il vertice nell’estate dell’82, quando, con la produzione di Shel Shapiro, la cantante incide il brano “Quante volte”, un soft-funky ricco d’atmosfera, alla cui incisione partecipano anche Jeremy Meek dei Live Wire e lo stesso Shapiro, come autore della musica. Proprio Shel si rivela una figura determinante per la realizzazione dell’album “Quante volte ho contato le stelle”, che la Martini incide in uno dei periodi più intensi della sua carriera, partecipando negli stessi mesi alla registrazione degli album di Loredana Bertè (“Traslocando”) e dell’amico Mimmo Cavallo (“Stancami, stancami musica”). In “Quante volte ho contato le stelle” incide, oltre a canzoni sue e di Mogol, brani di grandi cantautori, come Ivano Fossati, Riccardo Cocciante, Maurizio Piccoli e Gianni Bella. Anche dal punto di vista musicale, il disco raggiunge livelli qualitativi eccellenti, grazie alla presenza di cinque musicisti fissi (Chris Whitten alla batteria, Phil Cranham al basso, Maurizio Preti alle percussioni e Karl Wallinger alle testiere), ai quali si aggiungono numerosi solisti ospiti, chiamati per personalizzare i singoli episodi dell’album. Il 1983, uno degli anni più infelici della sua carriera, si apre con la pubblicazione dell’ultimo singolo estratto dal precedente album. Un disco che ha, fra le altre cose, il merito di sottoporre all’attenzione dei critici il testo di “Bambolina”, che, incentrato su un tema estremamente inquietante, la follia vista con gli occhi di un bambino, riesce a ottenere recensioni come quella firmata da Antonio Orlando, che sul periodico “Ciao 2001” lo paragona a “La canzone di Marinella” di De Andrè. Malgrado ciò, le difficoltà di poter lavorare dignitosamente, senza dover subire continue offese da parte di colleghi e addetti ai lavori, aumentano di giorno in giorno. E molti spiacevoli aneddoti potrebbero confermare le cattiverie gratuite inferte alla cantante da insospettabili colleghi. Gli stessi che, presenti al suo funerale, avranno anche il tempo, tra un “mea culpa” e un “pater noster” di firmare autografi. Vessata da continue cattiverie, decide di ritirarsi dalle scene “con un addio bello e importante”. Un album curato, fatto con amore per il suo pubblico. Nasce così “I miei compagni di viaggio”, interamente registrato dal vivo al Teatro “Ciak” di Milano. Nel disco, tutto il Gotha della musica italiana (due ex-Area, Ares Tavolazzi e Giulio Capiozzo, alla sezione ritmica, Gilberto Martellieri e Ivano Fossati alle tastiere, Giorgio Cocilovo e Riccardo Zappa alle chitarre, Mimì Gates e Carlo Siliotto al violino, Claudio Pascoli al sax), più un coro d’eccezione, costituito da Loredana Bertè, Aida Cooper e Cristiano De André. La scelta dei titoli ricade su “Il pescatore” di De André, “Un giorno dopo l’altro” di Tenco, “Suzanne” di Cohen, “Alice” di De Gregori, “Little wing” di Hendrix, “Señora” di Serrat, “Imagine” di Lennon, “Wuthering heights” di Kate Bush, “Big yellow taxi” di Joni Mitchell e la stupenda “Guilty” di Randy Newman. Tutt’altro che casuale l’inserimento di “Ed ora dico sul serio”, che, eseguita a fine concerto, comunica al pubblico la sua vera intenzione: “Ed ora dico sul serio/ non vorrei cantare più…”. Infatti, si allontana dalle scene per oltre un anno, facendovi una breve comparsa per onorare il contratto con la Ddd e continuare a seguire i nuovi artisti lanciati da Galanti. Un’ultima possibilità di rilancio (siamo ormai nel 1985) le viene offerta da Paolo Conte, che scrive per lei l’intensa “Spaccami il cuore”. La Ddd punta molto su questa incisione, tanto da proporla (caso strano per un disco concepito come un riempitivo contrattuale) alle selezioni per il Festival di Sanremo. Naturalmente, tutto va in fumo per i soliti, squallidi motivi. “Non vorrete mica che il palco dell’Ariston crolli…”. Oggi, in quanti si affannano ad osannare la raffinatezza di quella canzone! L’ha incisa recentemente Caterina Caselli, promuovendola in televisione durante una puntata del suo programma televisivo “Qualcuno mi può giudicare”. Una scena emblematica: soprattutto per chi conosce la dinamica di quella bocciatura. Introduce l’esibizione Red Ronnie. Nessuno, ovviamente, ha la delicatezza di ricordare che è stata Mia Martini la prima, in Italia, a scoprire e incidere quel gioiello di canzone. Intanto passano veloci, sul video, le immagini di “Casco d’oro” al fianco del cantautore astigiano. Lui suona, lei canta. “Sono un’attrice/ stammi a guardare…”. Ma intanto c’è chi pensa a Mimì e alle lacrime versate a causa di quella gratuita stroncatura. Scatta infine l’applauso. A chi tributarlo ? Consapevole del fatto che ormai tutte le sue realizzazioni venissero ormai giudicate in base ad assurdi pregiudizi (illustri colleghi hanno evitato il suo sguardo per anni), si ritira dalle scene fino al 1989, quando, grazie all’amico Giovanni Sanjust, ritorna a brillare nel cuore del suo adorato pubblico. Complice un Sanremo particolarmente scialbo, lancia l’indimenticabile “Almeno tu nell’universo. Il successo torna finalmente a sorriderle. Premiata come interprete dell’anno al “Tenco” di Sanremo, dal 1989 al 1992 pubblica cinque ottimi album (“Martini Mia”, “La mia razza”, “In concerto”, “Rapsodia” e “Lacrime”), mentre rassegne jazz e apparizioni televisive le restituiscono un ruolo da protagonista nel panorama, sempre più ristretto, delle grandi interpreti. Quello sanremese si conferma un palcoscenico particolarmente fortunato per Mia, grazie all’interpretazione di brani come “La nevicata del ’56” (Premio della critica nel 1990), “Gli uomini non cambiano” (seconda classificata nell’edizione del ’92) e “Stiamo come stiamo”, eseguita in duo, nel 1993, con la sorella Loredana, e “meritevole del Premio Boy-scout”, come commenterà ironicamente la stessa Mimì. La stupenda “Cu’mme” – incisa assieme a Roberto Murolo e concepita da Enzo Gragnaniello come una metaforica rappresentazione della forza della terra che si scontra con l’impetuosità del mare – la consacra portavoce della nuova canzone napoletana, mentre il brano “Rapsodia”, presentato all’Eurofestival, le fa meritare l’ammirazione della critica svedese, che la definisce “l’unica interprete di classe dell’Eurofestival”. L’ultimo, splendido album, “La musica che mi gira intorno”, pubblicato nel 1994, costituisce l’ennesima conferma del suo grande talento. Cosciente del confronto possibile, mette in gioco tutta la sua creatività per gettare nuova luce su composizioni già assimilate dall’uditorio (la raccolta comprende re-interpretazioni della migliore canzone d’autore. Un impegno arduo da cui solo i grandi, come lei, possono uscire a testa alta). Dopo la sua morte, avvenuta il 12 maggio 1995, i memoriali dei suoi amici (veri o presunti) si sono sprecati, contribuendo a delineare l’immagine di una donna sola, triste e sfortunata. Eppure basterebbe ascoltare anche un solo disco per renderci conto che l’eredità lasciata da Mia Martini è ben altra cosa: è il suo essere “voce dell’anima”, il suo divenire “voce di tutti”. Voce che fu sempre “d’amore”, come quel suo canto universale, che ci piace ricordare, oggi più che mai, con le parole che lei stessa ha rivolto a chi l’ha veramente amata, per spiegare le ragioni di quelle sue improvvise eclissi. Ora, purtroppo, definitive: “E allora io sono fuggita/ il corpo e l’anima ferita/ e il mio cuore sempre più stanco/ col suo cavallo bianco/ un bel giorno volò/ lassù tra le stelle mi portò… e si liberò…/ La musica era sempre uguale / il mio canto universale/ ma soltanto vicino al cuore/ tutte le parole il mio cuore ascoltò…”.
Addio Mimì