Vincenzo Verzeni, 22 anni, alto 1 e 66, 68 chili di peso; un fisico robusto, di chi è abituato a sudare nei campi e a guadagnarsi da vivere con la forza delle braccia.
Un ragazzo docile e silenzioso, solitario ma sempre gentile, all’apparenza innocuo; nessuno avrebbe mai potuto crederlo capace di un gesto violento, e invece, dietro la sua apparente normalità si nascondeva un’altra persona, capace di seminare l’orrore nella campagna bergamasca per circa quattro anni, dal 1870 al 1874, tenendo sotto scacco le imponenti forze di polizia impegnate a cercarlo.
Vincenzo si porta sulle spalle una storia familiare difficile: un padre quasi sempre ubriaco che lo picchia per nulla; una madre remissiva e succube che nulla riesce a fare per cambiare questa situazione; una famiglia maniacalmente avara, tanto da non permettere a Vincenzo di coltivare relazioni sentimentali che magari sarebbero sfociati in un matrimonio: troppi soldi da dover spendere. Così, in un clima di sottomissione che non riusciva a vincere, Vincenzo covava in silenzio i propri risentimenti, confinandoli in un piccolo lembo dell’anima dove, tenuti a freno dal rispetto del proprio ruolo di figlio, ribollivano e si alimentavano di una forza sempre più dirompente.
Una gelida mattina di dicembre del 1870, da una crepa di questa pentola a pressione, esplode in tutta la sua violenta forza la rabbia, per troppo tempo tenuta a freno, e come tutte le imprevedibilità del genere umano colpisce alla cieca, senza apparenti ragioni.
Il cielo chiaro, pulito dalle nuvole faceva nascere nel cuore di una ragazzina di appena 14 anni sentimenti di limpida felicità. La ragazza, Giovanna Motta, quella mattina aveva deciso di andare a far visita ad alcuni parenti che vivevano a Suiso, poco distante dal suo paese, nella bassa bergamasca, Bottanuco. Tagliando per i campi ancora bianchi di brina e attraverso un bosco di pioppi scheletrici sarebbe arrivata in pochi minuti, ma Giovanna, quella mattina non raggiungerà Suiso perché scompare misteriosamente.
Verrà ritrovata solo quattro giorni più tardi; il suo corpo senza vita, steso accanto ad un albero di gelso, è atrocemente mutilato e dalla devastazione di quelle membra è difficile riconoscere le sembianze di quella che era una giovane vita piena di sogni e di speranze.
La storia si ripete più volte e molte altre giovani vittime si aggiungeranno al conteggio, fino a quando due testimoni non incastrano Vincenzo Verzeni e lo fanno catturare.
La Corte d’Assise di Bergamo, dopo un breve processo, condanna l’imputato ai lavori forzati a vita; manca l’unanimità dei giudici nel verdetto di condanna e Vincenzo schiva la condanna a morte per fucilazione.
Ci penserà egli stesso a chiudere la partita con la vita suicidandosi in carcere qualche mese dopo.