Come mai avete voluto realizzare un ritratto di Rocco Siffredi? Per curiosità verso la pornografia? Per il desiderio di presentare sotto un’altra veste un personaggio famoso, ma per presunti “motivi sbagliati”?
Thierry Demaizière: In un primo tempo Mars Films e Programme 33 sono venuti a trovarci proponendoci di fare un documentario sulla pornografia americana. Di fatto però noi siamo innanzitutto e soprattutto dei ritrattisti e il soggetto ci è sembrato troppo vasto. A quel punto abbiamo proposto loro un film più corale, un’immersione nell’universo della pornografia attraverso dei ritratti dei protagonisti di questa industria (attori e attrici porno, produttori, tecnici. ecc…).
Il primo nome al quale tutti abbiamo pensato è stato quello di Rocco. Da 30 anni a questa parte è la star incontrastata del porno. È anche la prima persona che abbiamo incontrato a Budapest. Dopo una chiacchierata di un’ora eravamo persuasi che meritasse un ritratto lui da solo. E lo era anche lui peraltro! Non riusciva a immaginare un coprotagonista del film: «Chi pensate di mettermi davanti? Tutti quelli con cui ho cominciato non ci sono più». A 50 anni, era arrivato per lui il momento di mostrarsi in modo completamente diverso.
Alban Teurlai: Quello che ci ha subito colpiti sono state la complessità e la sofferenza dell’uomo, molto lontano dal personaggio burlesco del programma televisivo francese “Journal du Hard”. Per la prima volta, era pronto a confrontarsi con la parte più oscura della sua personalità. Sapevamo che attraverso lui e attraverso la pornografia, avremmo toccato tematiche più vaste e universali inerenti al desiderio e al senso di colpa. Una sorta di ritratto dell’uomo moderno.
TD: In quanto soggetto, Rocco va ben al di là della pornografia. Affronta la vita, la morte e i rapporti tra dominatori e sottomessi.
Ciò nonostante, questo ritratto di Rocco per voi resta un documentario sulla cinematografica porno?
TD: Sì, su un’industria che non è quasi mai stata trattata al cinema sotto forma di documentario, il che è allucinante dal momento che sappiamo che il porno genera 4,46 miliardi di visualizzazioni al mese, costituisce di per sé un terzo dell’intero traffico internet e che la cultura porno ha impregnato interi segmenti della società.
AT: Questa industria ha sempre fatto tendenza, sia in termini di estetica (silicone, tatuaggi, epilazione) sia a livello di tecnologia (film in 3D o realtà virtuale). Il porno è sul web, nella moda, nella pubblicità, contribuisce all’educazione sessuale degli adolescenti, non c’è una sola rivista, per quanto seria possa essere, che ogni estate non pubblichi il suo numero «speciale sesso». Si parla di pornografia culinaria, di pornografia della catastrofe e cineasti come Gaspar Noé o Lars Von Trier se ne impadroniscono per mettere l’atto pornografico al centro dei loro film. La nostra epoca è satura di immagini pornografiche e tuttavia, ed è questo il massimo dell’ipocrisia, è un fatto che non riguarda mai nessuno. Abbiamo fatto una fatica immane a reperire i finanziamenti per girare questo film. Molti hanno letto la sinossi tappandosi il naso come il Tartufo di Molière: «coprite quel seno che non mi è permesso guardarlo»…
TD: Il porno non rappresenta più la controcultura degli anni ’70. Ha cessato di essere un atto militante per apparire oggi come una patologia della nostra epoca. Spaventa, è un cinema da poveracci, un cinema di cui vergognarsi. Resta maledetto. Coloro che fanno film porno oggi appaiono come gli ultimi dei dannati e vengono disprezzati. Il porno non è chic: a Cannes, un Gérard Depardieu può irritarsi perché Rocco vuole fare la montée des marches. Non lo considera un attore, non fa parte della grande famiglia.
Un documentarista filma in modo diverso un attore porno?
AT: È un cinema di paria che, a forza di essere esclusi, non amano essere guardati e sono diffidenti. È dunque molto difficile arrivare con delle macchine da presa sul set di un film porno perché quella presenza estranea alla costruzione della scena che si sta girando deconcentra molto gli attori e le attrici che spesso sono contrari. Rocco è stato per noi un apriti sesamo! per poter filmare questo mondo che funziona a circuito chiuso.
Avevamo appena ultimato RELÈVE, un film sulla danza classica per il quale avevamo ripreso i ballerini per oltre tre mesi all’Opéra Garnier. Per quanto strano possa sembrare, quando abbiamo dovuto filmare degli attori porno ci siamo resi conto che l’approccio non era poi tanto diverso: entrambi i film sono sguardi sul corpo al lavoro. Come i ballerini, le pornostar sono degli atleti per i quali il corpo è uno strumento. La finalità non è esattamente la stessa, ma le loro professioni hanno qualche punto in comune: si tratta esclusivamente di performance fisiche molto intense che comportano molta sofferenza, delle ferite e a volte l’estasi. Gli attori porno possono girare fino a sei ore di fila. Li abbiamo filmati con la stessa attenzione e la stessa benevolenza con cui avremmo filmato un qualunque atleta. Senza preconcetti, senza giudizi morali. Sono dei lavoratori del sesso e noi li abbiamo filmati come qualsiasi lavoratore.
Avete scelto di non filmare il punto centrale della pornografia: la penetrazione. Perché? Per timidità, per censura?
TD: No, per vedere una penetrazione lo spettatore non ha bisogno di noi, gli basta un clic. Per quanto ci riguarda, era anzi l’aspetto meno interessante durante le riprese. I film porno spesso non sono altro che una successione di primi piani sul sesso degli attori e delle attrici. A noi interessava il resto: i volti, le mani, gli sguardi, i crampi, i muscoli, tutto quello che di solito resta fuori campo.
Sono dei performer. La nostra sfida era quindi di riuscire a trasferire un’atmosfera inerente alla pornografia, a questa dipendenza dal sesso, senza passare per la penetrazione e senza occultare la violenza e la sofferenza.
Rocco è famoso per le sue scene estreme. Va molto lontano nelle fantasie, incarna l’apice della pornografia. Ma è anche colui che, nell’ambiente del porno, è conosciuto per il suo modo di accompagnare le attrici, di stabilire a modo suo una complicità con loro…
TD: Sì, il suo rapporto con le donne, con sua madre, sua moglie e le sue attrici, è complesso, al tempo stesso oscuro ed effettivamente complice. È il cuore del film. Rocco ha una evidente dimensione analoga a Cristo, è crocifisso al corpo delle donne e soffre a causa di quello che gli dà da vivere. Porta il fardello dell’uomo moderno che deve e vuole essere tutto allo stesso momento: stallone, uomo d’affari, sex symbol, marito, padre di famiglia, figlio affettuoso. Lui, simbolo del maschio dominatore, asserisce di fatto di essere dominato dalle donne, schiavo dei loro desideri.
Ad ogni modo, nel film comprendiamo che il rapporto dominazione / sottomissione è molto più complesso di quanto non possa sembrare. Per la sua ultima scena, Rocco è persino arrivato a proporre di invertire questo rapporto e di interpretare a sua volta l’uomo oggetto. Quando abbiamo iniziato a mostrare il film, abbiamo spesso sentito questa riflessione: il vostro film parla quasi più di donne che di uomini. Probabilmente questo è dovuto allo spazio che occupa Kelly Stafford nell’ultimo terzo del film. Kelly è il suo doppio femminile, la partner più emblematica della trentennale carriera di Rocco, una performer incredibile in grado di entrare in trance con lui e di avere rapporti sessuali di un’animalità sconvolgente. Per questo è una persona molto disturbante. Spinge lo spettatore ad interrogarsi sul suo stesso desiderio e sui suoi limiti.
AT: Un giorno Rocco ci ha detto questa frase: «Sono innanzitutto un altoparlante. Ma è la donna che stabilisce il volume». Si considera al servizio delle donne. Forse farà sorridere, ma Rocco è un cerebrale puro, è in costante ricerca della trance che è il suo principio motore e, a volte, è anche quello che muove le ragazze con cui gira.
Non è, purtroppo, sempre così però…
TD: No e non dobbiamo mentire a noi stessi. Penso che il film non faccia sconti in merito a questo problema. Siamo stati molto attenti ai profili delle attrici che abbiamo scelto di mostrare. C’è sia la giovane attrice americana, molto professionale, lavoratrice del sesso che assume la sua scelta, anzi la rivendica, sia la giovane esordiente senza esperienza che si incammina verso il mattatoio.
AT: Abbiamo girato per due anni. abbiamo incontrato molte attrici e molti attori. Per ciascuno di loro, ci sono ovviamente tanto i motivi per cui fanno il porno quanto le storie personali.
Le donne possono molto velocemente trovarsi in una posizione di debolezza in un’industria che sa essere brutale e spietata, gestita il più delle volte da uomini, tra cui alcuni disposti a tutto pur di guadagnare. Eppure, entrando in contatto con la realtà di questo mondo, ci è capitato di imbatterci in situazioni molto lontane dai cliché e dalle idee preconcette.
È evidente che il cinema porno si nutre abbondantemente dei disastri economici di alcune regioni del mondo, in particolare dei paesi dell’ex blocco dell’Est. Molto spesso le attrici entrano nel business per ragioni si sopravvivenza economica, ma anche per sete di celebrità. Queste ultime in generale non durano a lungo e vengono triturate dal meccanismo. Le fini delle loro brevi carriere sono orribili. Penso, per esempio, a Jenny Smart, un’esordiente ceca che vediamo all’inizio del film, terrorizzata da quello che l’aspetta. Abbiamo deciso di conservare questa scena al montaggio, anche se provoca un vero malessere, perché è una parte terribile della realtà del porno. Devono essercene centinaia come lei.
Ma c’è anche l’altro lato dell’industria, meno sordido, popolato di giovani donne consapevoli del loro desiderio, per le quali il porno è un modo accettabile di fare soldi o addirittura di rivendicare una certa forma di contro-cultura.
Avete avuto il privilegio di filmare l’ultima scena porno di Rocco. L’addio al set del più grande attore pornografico di tutti i tempi era previsto fin dall’inizio delle vostre riprese?
AT: Assolutamente no. Penso che siamo arrivati con il nostro progetto in un momento di svolta nella sua vita. E Rocco ha percepito che questo nostro film sarebbe stato per lui l’occasione di chiudere in bellezza.
TD: All’inizio non sapevamo nulla, no, ma abbiamo capito quasi subito che non sarebbe riuscito a reggere ancora a lungo il ruolo di super star del porno, di maschio alfa dominante. Era assillato da troppi dubbi, troppe domande. E anche sul piano fisico. Rocco è ancora molto prestante, ma il suo corpo è sfiancato: ha problemi alle anche, alle ginocchia, alla schiena, ha dolori dappertutto. È stata una fortuna incredibile per noi e per il film arrivare in quel preciso momento della sua storia, quando qualcosa ha smesso di funzionare.
Questa cosa che non funziona più, al di là del fisico, cosa sarebbe?
TD: È qualcosa che ha a che fare con il senso di colpa. Qualcosa di molto italiano. Un attore francese ci avrebbe parlato della sua vita da libertino senza alcun rimorso né complesso. Lui ci ha innanzitutto parlato di sua madre, del peso della famiglia, della religione che non è mai molto lontana. Del lavoro intimo che ha dovuto fare per conquistare prima di tutto l’approvazione di sua madre per poter essere quello che è. E poi il consenso di sua moglie per continuare ad essere quello che è pur mantenendo un’unione di coppia. E tuttavia, malgrado si sia conquistato queste due autorizzazioni, resta sempre un uomo italiano impegolato in una serie di quesiti esistenziali e morali sul suo senso del dovere, sulle sue trasgressioni, sulla sua infelicità e il suo godimento.
La sua infelicità…?
TD: Sì. È stata una situazione unica e sorprendente: eravamo seduti di fronte al re del porno e lo ascoltavamo dirci che nel profondo è infelice, ancora e sempre infelice, di essere l’uomo che è, l’uomo che ha fatto di tutto per essere. Il film racconta questa tragedia, questa lacerazione.
Rocco non ha mai fatto mistero della sua profonda erotomania, al punto di non poter vivere senza il porno…
TD: Sì ed è questo il suo paradosso. È il motivo per cui Rocco è intensamente umano. Ha 52 anni, grazie al porno è diventato ricco, osannato, famoso in tutto il mondo. Ci saremmo potuti aspettare di incontrare un individuo più sereno, un barone del porno, un principe nel suo regno, soddisfatto della sua riuscita. E invece è l’esatto contrario: sta male. È addirittura la persona del clan Siffredi che sta peggio di tutti. Mentre sua moglie e i suoi figli sembrano aver perfettamente accettato la situazione, lui è ossessionato dalla sua domanda senza risposta, come se fosse condannato a desiderare…
AT: Rocco viene da Ortona, una cittadina abruzzese. Quando ha scelto di dedicarsi al porno, tutti i notabili del villaggio lo hanno convocato. Il medico, il curato e uno dei suoi fratelli gli hanno detto: «Se farai questo, venderai la tua anima al diavolo. Non avrai una famiglia, ti verranno tutte le malattie, sarai maledetto». E per certi versi, è rimasto ancora a quel momento, come se la maledizione si fosse avverata.
Le vostre riprese sono durate due anni. Di solito, una lavorazione così lunga aiuta un ritrattista ad accedere ad una certa intimità. Quale intimità è in grado di creare la macchina da presa con qualcuno che è abituato ad essere filmato nell’intimità?
AT: La nudità degli attori e delle attrici che abbiamo incontrato non crea una «intimità» propriamente detta, tanto è quotidiana e ordinaria.
La vera e propria intimità è stata psicologica. Rocco non ha alcun limite e non ha alcun filtro, nel sesso come nella vita, dà tutto e troppo. Da questo punto di vista è l’uomo più integro che abbiamo mai filmato. Non ha mai cercato di dissimulare alcun ché, non è mai tornato indietro su quello che ha detto o fatto davanti al nostro obiettivo. Non ci ha mai chiesto di tagliare qualcosa, nemmeno quando la situazione non era a suo vantaggio, come a volte capita all’interno del film. Se ne frega. La sola cosa che lo interessa è la verità. l’intimità è scaturita da questa fiducia cieca che ha avuto in noi. Quando gli abbiamo mostrato il film, ci ha detto: «è la prima volta che mi si vede nudo».
Quando si filma Rocco, con i suoi contatti e il suo entourage, qual è il margine che ci si pone tra ritratto di condanna e film celebrativo?
TD: Non volevamo fare né un’agiografia di Rocco chiudendo gli occhi su tutto, né un film moralistico contro la pornografia. Abbiamo fatto un ritratto di un individuo complesso che pratica un cinema porno molto hard, in cui le ragazze che girano con lui non possono passare su un altro set il giorno dopo perché per loro sarebbe fisicamente impossibile. Non abbiamo nascosto nulla. Viviamo in un’epoca di sensibilità nei confronti della violenza contro le donne, e a buon diritto, e il modo in cui le donne vedono la pornografia ci ha ossessionati durante i due anni di riprese. Rocco ci ha mostrato il suo lato oscuro, ma anche la sua ricerca della verità nel piacere delle donne che si esprime attraverso la follia, la dismisura, la ferocia e la dominazione. Non è un film inquisitore e non è un film elogiativo: è lui. Abbiamo fatto il ritratto di un uomo pieno di paradossi, mezzo angelo e mezzo demone.
AT: La vera difficoltà è arrivata in seguito, durante il montaggio, quando abbiamo dovuto condensare in 105 minuti l’atmosfera di due anni di riprese, mantenendo il fragile equilibrio tra la profonda umanità di Rocco e il suo lato mostruoso.
Da un lato c’è la tragedia dell’uomo e dall’altro c’è una dimensione comica che quasi ricorda un certo cinema italiano degli anni ’70. Con la loro dose di burlesco, le scene tra Rocco e suo cugino Gabriele, ci fanno pensare a Dino Risi…
TD: Avevamo più di 200 ore di materiale girato e c’erano molte scene con Gabriele. Il lato comico, a volte involontario, faceva sempre capolino, con le sceneggiature che Gabriele si inventa tutto solo nel suo angolo e che non funzionano mai. Questi retroscena erano irresistibili, ma non forniscono informazioni sulla personalità di Rocco, quindi ci siamo trattenuti. Ma nel film ci sono alcune scene che rasentano la pura commedia canzonatoria.
AT: Rocco e suo cugino Gabriele sono le due facce di una stessa medaglia. Sono inseparabili da 30 anni. Rocco interpreta e Gabriele inventa attorno all’interpretazione. La loro pornografia ha due volti: un duro, estremo, quando si tratta di scene di sesso. L’altro naïf, arcaico, quasi infantile, quando si tratta di scene di «commedia». La serietà e la dedizione messe in atto dai due compari per trovare una sceneggiatura e scavare nella profondità psicologica dei personaggi a volte sfiora la genialità. Sembrano due bambini presi dalle loro storie che si raccontano in modo molto diretto. Il loro cinema è quasi un cinema delle origini: giocano, nel senso originale del termine.
C’è qualcosa di talmente amatoriale e ingenuo nel cinema porno che ad un certo punto abbiamo avuto molta paura che pensassero che li stessimo prendendo in giro, quando in realtà era vero l’esatto contrario. La Porn Valley si trova dietro le colline di Hollywood, lontano da sguardi indiscreti. Le riprese vengono fatte senza alcun mezzo, senza ingegnere del suono, senza tecnici, e gli attori di rado sono coperti da un’assicurazione, poiché assicurare tutti eroderebbe l’intero budget del film.
Siamo partiti alla scoperta di un cinema quasi clandestino.
Che tipo di estetica avete scelto per smarcarvi dal porno pur non giudicandolo?
AT: L’approccio estetico al cinema porno è sempre abborracciato, che si tratti delle produzioni in sé o della rappresentazione che ne viene data nella pletora di reportage che sono stati realizzati su questa industria. Malgrado giriamo documentari, con mezzi infinitamente più limitati rispetto alla finzione, abbiamo sempre cercato di dare ai nostri film una tonalità, un colore e, soprattutto, un punto di vista. E il punto di vista comincia dal modo in cui guardiamo il nostro soggetto. È una maniera di rispettare coloro che filmiamo e che ci offrono una parte di loro stessi. A che titolo il porno dovrebbe essere filmato meno bene?
Il punto fondamentale era affrontare da una prospettiva diversa le scene di sesso, la cui rappresentazione è solitamente molto cruda e diretta, passando dall’altra parte, quella del chiaroscuro, per rendere a volte quasi poetico il groviglio dei corpi. Non abbiamo cercato di sublimare il porno, ma più che altro di incoraggiare lo spettatore a guardarlo con occhi diversi.
E la musica?
AT: Con questo lungometraggio, firmiamo la nostra sesta collaborazione con AVIA. All’inizio delle riprese avevamo pensato che il film non avesse bisogno di musica data la pesantezza del clima e la complessità del soggetto da trattare.
Dopo averle montate, ci siamo resi conto che le sequenze «esplicite» erano ancora troppo brutali, troppo crude. Volevamo fare un film sulla pornografia e non un film pornografico. Intuitivamente, abbiamo pensato che la musica avrebbe messo quella giusta distanza che ricercavamo dall’inizio e avrebbe reso le immagini meno figurative. Fare un film su Rocco Siffredi e sul mondo del porno esigeva da parte nostra di essere sempre ad una distanza adeguata. Eppure, ogni volta che cercavamo di inserire delle musiche sul nostro girato, ci scontravamo con lo stesso problema: la musica o sublimava l’atto pornografico o lo rendeva ancora più sordido. E non ci sentivamo a nostro agio in nessuna di queste due posizioni. Volevamo che nella colonna sonora si avvertisse una minaccia, qualcosa di invisibile ma di palpabile, una sorta di tensione permanente, percepita ma mai imposta.
AVIA è andato a cercare una serie di accordi minimalisti reiterati alla John Carpenter, delle chitarre pesanti simili a quelle di Neil Young per DEAD MAN e un corno da caccia come in FOXCATCHER – UNA STORIA AMERICANA e poi ha lavorato molto per compiere il percorso inverso e staccarsi da quei riferimenti ed appropriarsi del film. Non volevamo assolutamente una musica piena di riferimenti o ammiccante, ma una pura composizione del tutto personale.
ROCCO è il nostro film meno «musicale» e a volte siamo rimasti molto disturbati dall’assenza totale di musica durante lunghi minuti, ma penso che siamo riusciti a trovare un giusto equilibrio per un soggetto così spinoso, dove la musica è presente non per sublimare o giudicare, ma perché parte integrante del racconto a cui dà lo spessore e il respiro auspicati.
La voce fuori campo, molto presente nelle sequenze iniziali, scompare progressivamente da film…
TD: Avevamo bisogno che Rocco raccontasse della sua infanzia e della sua famiglia, per capire che cosa gli è successo che lo ha fatto diventare Rocco Siffredi. Una volta enunciati gli elementi biografici in modo esauriente e definitivo, non c’è più stato bisogno della voce narrante. Il film precipita verso qualcosa d’altro.
Il corpo di Rocco parla per lui?
TD: Il corpo di Rocco è come lui, dolente. È teso, contratto, ha problemi di prostata, di sciatica, è consumato dal sesso e questo gli dà un aspetto da Re Lear affaticato.
Ma al tempo stesso, è ancora un atleta che si sottopone a terrificanti allenamenti. Ha bisogno di soffrire per scontare il debito che ha con il dio del sesso.