Il proliferare di guerre, povertà, disuguaglianze e rapine di risorse naturali dipinge non di rado la Terra come un luogo lugubre da vivere per gli esseri umani, ma la civiltà ha una brillante stella al merito da potersi appuntare al petto per consolarsi: la lotta contro la fame nel mondo, nonostante tutto, prosegue spedita. Al 2015 le persone che rischiano di morire per inedia sono 1 su 9, una cifra enorme – 795 milioni – ma pur sempre in costante miglioramento; nonostante la popolazione globale dall’inizio degli anni ’90 sia aumentata di ben 1,9 miliardi di persone, quelle che soffrono la fame sono 216 milioni in meno. La terribile notizia che arriva adesso dalla Fao – l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura – è che la corsa in avanti non solo si è fermata, ma ha innestato la retromarcia.
Come ha dichiarato José Graziano da Silva aprendo i lavori della Conferenza biennale dell’agenzia – il più alto organo direttivo dell’Organizzazione, riunitosi ieri a Roma con oltre 1.100 delegati – il numero di persone affamate al mondo è aumentato dal 2015 ad oggi, invertendo anni di progressi: «Oggi oltre 800 milioni di persone soffrono ancora di fame cronica, e sfortunatamente il numero ha cominciato nuovamente a crescere», ha spiegato da Silva, e quasi il 60% delle persone che soffrono la fame vive in paesi colpiti da conflitti armati e dagli effetti del cambiamento climatico.
Ad oggi la Fao individua 19 paesi in una situazione di crisi prolungata, spesso anche aggravata da eventi climatici estremi come siccità e inondazioni, segnalando un elevato rischio di carestia nel nord-est della Nigeria, in Somalia, nel Sud Sudan e in Yemen con 20 milioni di persone gravemente colpite. Per fare chiarezza sulla posta in gioco, dalla Fao spiegano che in ballo c’è la prospettiva della peggiore crisi alimentare dalla seconda guerra mondiale, «una delle maggiori crisi umanitarie mai registrate».
Perché questo regresso? Graziano da Silva ha sottolineato come i progressi fatti nella lotta alla fame e alla povertà nei decenni passati oggi siano a rischio a causa di conflitti, della crescita della popolazione, dei cambiamenti climatici e del cambiamento dei modelli di dieta.
«La fame è spesso dovuta alla povertà e alle ineguaglianze – ha aggiunto il presidente dell’Ifad (Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo) Gilbert Houngbo intervenendo all’evento – È il risultato dell’esclusione dei produttori di piccola scala dai sistemi alimentari di grande scala».
Meccanismi che si ritorcono contro l’Occidente, come dovrebbe essere ormai evidente: è a questi confini del benessere che i migranti tentano l’assalto non trovando vie di fuga in patria. La capacità di queste popolazioni prevalentemente rurali di sostenersi è stata bruscamente interrotta e «molti di loro non hanno avuto altra scelta se non incrementare le statistiche dell’emigrazione», ha dichiarato da Silva. «La pace è ovviamente la chiave per porre fine a queste crisi, ma non possiamo attendere la pace per agire: è estremamente importante garantire che queste persone abbiano le condizioni per continuare a produrre il proprio cibo. Le persone rurali vulnerabili non possono essere lasciate indietro, soprattutto i giovani e le donne».
L’agricoltura può rappresentare solo il 4% del prodotto interno lordo globale, ma il suo ruolo reale è molto più grande, e va difeso nell’interesse di tutti. «In tutta franchezza, al ritmo attuale la comunità internazionale non sarà in grado di raggiungere l’obiettivo Fame Zero entro il 2030», ha messo chiaramente in evidenza il presidente Ifad, ma possiamo ancora farcela «se agiamo ora per stabilire sistemi alimentari inclusivi e sostenibili e per costruire la resilienza dei poveri rurali e degli ecosistemi dai quali essi dipendono».
Trasformare la volontà politica – l’obiettivo Fame Zero è infatti già condiviso a livello internazionale – in azione richiede una maggiore attenzione alle strategie nazionali, incluse quelle relative alla nutrizione, alla salute, e all’educazione. «Infine, dobbiamo aumentare significamene gli investimenti», ha concluso da Silva. Non si tratta di un problema di risorse economiche mancanti, quanto di volontà. Secondo il premio Nobel per l’Economia Eric Maskin basterebbe investire lo 0,36% del Pil mondiale ogni anno per eliminare povertà estrema e fame al 2030, ma non è così che stanno andando le cose. I numeri descrivono una realtà molto più dolorosa da accettare: oggi circa 155 milioni di bambini sotto i cinque anni sono rachitici – quasi un quarto del totale – mentre 1,9 miliardi di persone sono sovrappeso, di questi 500 milioni sono obesi, e due miliardi di persone soffrono di mancanza di micronutrienti. Un paradosso che scuote anche l’Italia, dove 4,5 milioni di cittadini vivono in povertà assoluta mentre lo spreco di cibo vale 12,6–15,6 miliardi di euro all’anno.
(da Greenreport)
fonte aduc