A San Pietroburgo viene diffidato dall’ambasciatore di Spagna a non spacciarsi per spagnolo e un suo documento, col quale voleva attestarsi come un Rosacroce, viene riconosciuto per falso. Si presenta anche come taumaturgo e ha l’accortezza di non farsi pagare dai poveri – solo dai ricchi – e se non ottiene nessuna guarigione, si guadagna simpatia e popolarità; ma basta l’inimicizia o l’incredulità di un potente per costringere i due italiani a partire: e così, nel maggio 1780, Giuseppe e Lorenza sono a Varsavia. Il massone, appassionato di alchimia, principe Adam Pininsky, lo ospita illudendosi che Cagliostro sia in grado di trasformare il piombo in oro: a questo scopo gli affianca il confratello massone August Moszynsky negli esperimenti di laboratorio. Questi pubblicherà nel 1786 un libretto sull’esperienze alchemiche del Nostro, riferendo come Cagliostro ottenesse l’oro dal piombo semplicemente sostituendo il recipiente contenente il piombo con un altro eguale contenente l’oro.
A questo prevedibile infortunio si aggiunge quello scoperto ai danni di una ragazza, da lui sessualmente molestata, con la quale si era altresì accordato per la riuscita di altrimenti improbabili evocazioni spiritiche. L’esperienza polacca, come consuetudine, si conclude con la partenza improvvisa, il 26 giugno 1780, per la Francia. A Strasburgo si accontenta di fingersi medico: se le sue tisane a base di erbe, la cui ricetta si è conservata, si rivelano semplici placebo, le guarigioni di cancrene ottenute bevendo liquori sono naturalmente fantasie propalate da lui stesso, che ottenevano tuttavia l’unico effetto che realmente gli premesse: presentarsi al pubblico di tutta l’Europa come l’unico uomo capace di risolvere – a pagamento – qualsiasi problema. E la sua fama toccò il culmine proprio in quel decennio del secolo.
Louis René Édouard de Rohan, creato cardinale il 1° giugno 1778 da Pio VI, ricchissimo e altrettanto prodigo, di bell’aspetto e molto galante con le donne, di piacevole e leggera conversazione ma vanesio, di modesta cultura e di scarsa intelligenza, era stato a lungo ambasciatore di Francia a Vienna dove commise una grave gaffe diplomatica: descrisse l’imperatrice Maria Teresa come un’insopportabile ipocrita in una lettera inviata al duca d’Aiguillon, il quale la mostrò alla sua amante, la duchessa Du Barry, che a sua volta la fece leggere a Maria Antonietta, figlia di Maria Teresa e prossima regina di Francia. Così, quando Luigi XVI e Maria Antonietta salirono sul trono francese, nel 1774, il Rohan perdette il posto di ambasciatore ma non il consueto buonumore, dal momento che le sue rendite continuarono ad aumentare ugualmente e le sue avventure galanti rimasero numerose come prima.
Il cardinale, che passava buona parte dell’anno a Strasburgo, saputo della presenza in città di Cagliostro, lo invitò a palazzo e ne fu conquistato. Appassionato di alchimia, credette di ravvisare in Cagliostro un maestro; ritenendolo un infallibile medico, lo condusse con sé a Parigi perché si prendesse cura del cugino, il maresciallo Charles de Rohan, il quale, per sua fortuna, guarì senza dover ricorrere alle improbabili medicine dell’italiano.
Anni dopo Cagliostro cercherà di servirsi dell’influenza del cardinale per far legittimare dal papa, come fosse un qualsiasi Ordine religioso, il proprio “Rito Egizio”, una curiosa specie di Ordine massonico-religioso, che egli dirà di aver fondato a Bordeaux nel 1784.
A conclusione del solito lungo tour che doveva portarlo in Inghilterra attraverso Napoli, Roma e la Costa Azzurra, giunto a Bordeaux l’8 novembre 1783, in maggio si ammalò e, forse in un delirio febbrile, come è scritto nel Compendio del suo processo, «si vide prendere per il collo da due Persone, strascinare e trasportare in un profondo sotterraneo. Aperta quivi una porta, fu introdotto in un luogo delizioso come un Salone Regio, tutto illuminato, in cui si celebrava una gran festa da molte persone tutte vestite in abito talare, fra le quali riconobbe diversi de’ suoi Figli Massonici già morti. Credette allora di aver finiti li guai di questo mondo e di trovarsi in Paradiso. Gli fu presentato un Abito talare bianco, ed una Spada, fabbricata come quella che suol rappresentarsi in mano dell’Angelo Sterminatore. Andò innanzi ed abbagliato da una gran luce, si prostrò e ringraziò l’Ente Supremo di averlo fatto pervenire alla felicità; ma sentì da un’incognita voce rispondersi: Questo è il presente che avrai; ti bisogna ancor travagliare molto; e qui terminò la Visione».
Grazie a questa visione, che in verità sembra essere stata inventata lì per lì a uso e consumo dell’inquisitore che lo interrogava, Cagliostro si sarebbe convinto di avere la missione di fondare la Massoneria di Rito Egizio – l’Egitto era allora un paese praticamente sconosciuto e pertanto ricco di un misterioso fascino esotico – che avrebbe dovuto assorbire ogni altra. Si elegge Gran Cofto e crea la moglie – ora chiamata principessa Serafina e Regina di Saba – Grande Maestra del Rito d’adozione, cioè della Loggia riservata alle donne; fatta risalire l’origine di tale massoneria ai profeti biblici Enoch ed Elia, secondo una tradizione che vedeva nell’intervento di quei due profeti la premessa a un radicale mutamento della vita, con la successiva venuta di un “papa angelico” o dello stesso Cristo, Cagliostro sosteneva che scopo del Rito Egizio fosse la rigenerazione fisica e spirituale dell’uomo, il suo ritorno alla condizione precedente alla caduta provocata dal peccato originale, ottenuta, dal Gran Cofto e dai dodici Maestri che lo avrebbero assistito, con ottanta giorni di attività iniziatiche.
Per i nuovi aderenti, naturalmente, i tempi per raggiungere la perfezione sarebbero stati molto più lunghi: solo al dodicesimo anno di appartenenza, sarebbero potuti diventare maestri e prendersi cura dei nuovi iniziati. Ma solo lui, il Gran Cofto, rimaneva depositario di un mysterium magnum il cui contenuto è rimasto effettivamente avvolto nel mistero.
Con questo ambizioso programma Lorenza e Giuseppe, il quale per l’occasione si fa chiamare conte Phenix, giungono il 20 ottobre 1784 a Lione, dove esistono numerose Logge massoniche; Cagliostro riesce a procurarsi fra di esse i dodici maestri che gli abbisognavano subito e, comprato un terreno nell’attuale avenue Morand, provvede a far costruire la sede della sua Loggia, “La sagesse triomphante”. I lavori erano ancora in corso quando i due coniugi partirono per Parigi, decisi a raggiungere il traguardo finale: il riconoscimento, da parte della Chiesa cattolica, del suo Rito Egizio.
Giunti a Parigi il 30 gennaio 1785, prendono un alloggio nel Palais Royal, di proprietà del duca Luigi Filippo II di Borbone-Orléans (1747-1793), Gran Maestro della Massoneria francese e futuro Filippo Egalité, fonda in fretta due Logge, una per gli uomini e l’altra per le donne, entrambe frequentate da aristocratici. Tutto sembra andare per il giusto verso quando un evento inaspettato mandò all’aria i suoi piani.
È nota la vicenda passata alla storia come lo scandalo della collana: nel 1774 il gioielliere di corte Boehmer aveva realizzato una elaboratissima collana di diamanti, del valore di 1.600.000 livres – poco meno di cento milioni di euro – una somma che forse solo una regina avrebbe potuto spendere, ma Maria Antonietta rifiutò l’acquisto. A questo punto entrarono in gioco due avventurieri, il conte e la contessa de la Motte, che organizzarono una truffa ai danni del cardinale de Rohan, convincendolo ad acquistarla per farne dono alla regina, riconquistandone così la sua amicizia – e forse anche altro – perduta dopo la gaffe da lui commessa nei confronti di Maria Teresa, madre della regina francese.
La collana, consegnata dall’inconsapevole cardinale a un complice dei due aristocratici imbroglioni, finì nelle mani del conte de la Motte, che cercò di venderla, smembrata, in Inghilterra ma la truffa fu scoperta e i colpevoli arrestati: la contessa de la Motte, per attenuare le sue responsabilità, accusò Cagliostro di essere l’ideatore del raggiro. Arrestato con la moglie il 22 agosto 1785, Cagliostro fu incarcerato nella Bastiglia.
Fu difeso dai migliori avvocati di Parigi, uno dei quali lo aiutò a scrivere in francese un suo Memoriale, di fatto un riassunto del tutto inattendibile della sua vita dalla nascita al suo arresto. Il 31 maggio 1786 il Parlamento di Parigi riconobbe l’innocenza dei due italiani, insieme con quella del cardinale, ma una lettre de cachet del re ordinò loro di lasciare Parigi entro otto giorni e la Francia entro venti; e così, il 19 giugno, Lorenza e Giuseppe s’imbarcarono da Boulogne per Dover.
A Londra Cagliostro dovette fronteggiare una campagna di stampa scatenata contro di lui dal Courier de l’Europe, un giornale controllato dal governo francese, che per tre mesi rivangò il burrascoso passato di Cagliostro e Serafina, anzi – il giornalista Theveneau, l’autore degli articoli, era effettivamente ben informato – di Giuseppe Balsamo e di Lorenza Feliciani, le sue origini oscure, l’uso di molti nomi e di molti titoli, i veri e presunti imbrogli e i non rari arresti; Cagliostro, nel novembre 1786, rispose con la Lettera del conte di Cagliostro al popolo inglese per servire in seguito alle sue memorie in cui ammetteva: «non sono conte, né marchese, né capitano. La mia vera qualifica è inferiore o superiore a quelle che mi sono state date? È ciò che forse un giorno il pubblicò saprà! Intanto, non mi si può rimproverare d’aver fatto quel che fanno i viaggiatori che vogliono mantenere l’anonimato. Gli stessi motivi che mi hanno indotto ad attribuirmi vari titoli, mi hanno condotto a cambiare più volte il mio nome […] Nessun registro di polizia, nessuna testimonianza, nessuna inchiesta della polizia della Bastiglia, nessun rapporto informativo, nessuna prova hanno potuto stabilire che io sia quel Balsamo! Nego di essere Balsamo!».
Ma intorno a lui si va facendo il vuoto: lasciata Londra per Hammersmith nel marzo del 1787, dà lezioni di alchimia e subisce altri infortuni: un suo allievo sostituisce, a sua insaputa, il metallo che Cagliostro doveva “trasmutare” con del semplice tabacco e stranamente la trasmutazione si verifica lo stesso, con gran scandalo dell’allievo che gli rinfaccia la truffa, mentre intanto i suoi collaboratori massoni di Lione lo rimproverano di spendere per sé il denaro della Loggia. È nuovamente tempo di cambiare aria: il 5 aprile 1787, questa volta senza la moglie, raggiunge Bienne, in Svizzera.
Mentre è ospite del banchiere Sarasin, Lorenza, che è rimasta a Londra per liquidare i beni lì posseduti, viene avvicinata dal giornalista del Courier de l’Europe, al quale raccontò di maltrattamenti subiti dal marito e degli impedimenti che lui le poneva di professare la religione cattolica. Una volta raggiunto Cagliostro in Svizzera, Lorenza ritrattò tutto pubblicamente ma tutto riconfermò in una lettera spedita ai genitori, a Roma, lettera che verrà mostrata come prova a carico di Cagliostro durante il processo.
Nello stesso periodo in cui Balsamo era in Svizzera, Goethe, nel suo lungo viaggio in Italia, il 2 aprile sbarcava a Palermo proveniente da Napoli; curioso di raccogliere notizie di prima mano sulle origini del nostro famosissimo avventuriero, contattò il barone Antonio Vivona, rappresentante legale della Francia in Sicilia, dal quale prese visione dell’albero genealogico della famiglia Balsamo e della «perfetta identità di Cagliostro e Balsamo».
Goethe, che scrive di considerare Cagliostro «un briccone» e le sue avventure delle «ciurmerie», volle rendere visita alla madre e alla sorella, spacciandosi per «un inglese che doveva portare ai famigliari notizie di Cagliostro, giunto di recente a Londra».
Abitavano in una misera casa di Palermo, composta di un solo grande locale, ma pulita, abitata dalla madre, dalla sorella di Giuseppe, vedova, e dai suoi tre figli. La sorella si lamentò di Giuseppe, che le doveva da anni una forte somma: da «quando era partito in gran fretta da Palermo, ella aveva riscattato per lui certi oggetti impegnati, ma da quel momento non si era fatto più vivo e non le aveva mandato né denaro né sussidi di alcun genere sebbene, a quanto si diceva, possedesse grandi ricchezze e conducesse una vita principesca. Ella chiedeva perciò se potevo prometterle, tornando in patria, di rammentargli con garbo quel debito e ottenere che le concedesse un aiuto finanziario».
Gli consegnarono una lettera per Cagliostro e, nel congedarsi, la madre lo pregò di dire al figlio «quanto mi hanno resa felice le notizie che Ella ci ha portato. Gli dica che lo tengo chiuso nel mio cuore così – e a questo punto spalancò le braccia e se le strinse al petto – che ogni giorno nelle mie devozioni prego per lui Dio e la Santa Vergine, che gli mando la mia benedizione, insieme a sua moglie, e che prima di morire vorrei solo che questi occhi, che tante lacrime hanno versato per amor suo, lo potessero rivedere». Lo invitarono a tornare a Palermo per la festa di Santa Rosalia – «gli mostreremo ogni cosa, andremo a sederci nel palco per ammirare meglio il corteo; e come gli piacerà il grande carro e soprattutto la fantastica luminaria!» e, quando fu uscito, «corsero sul balcone della cucina che dava sulla strada, mi chiamarono e mi fecero grandi cenni di saluto».
Goethe non li rivedrà più ma mandò poi, di sua tasca, la somma richiesta dalla sorella, 14 once d’oro, e pubblicò un ritratto di Cagliostro nell’opera Der Grosskophta.
Intanto Cagliostro, in Svizzera, litiga con uno degli ultimi amici rimastigli, il pittore Loutherbourg, che lo accusa di insidiargli la moglie; si guadagna da vivere facendo il guaritore ma l’ambiente della cittadina svizzera è troppo angusto per lui, abituato a ben altri palcoscenici: il 23 luglio 1788 parte con Lorenza per Aix-les-Bains, di qui vanno a Torino ma ne vengono immediatamente espulsi e allora si recano a Genova passando, in settembre, per Venezia, poi per Verona e di qui nei territori imperiali, soggiornando un mese a Rovereto per poi raggiungere la città di Trento il 21 novembre.
A Trento è ben accolto dallo stesso principe-vescovo, Pietro Vigilio Thun, ed egli stesso mostrò grande deferenza nei confronti della confessione cattolica; giustificò la sua appartenenza alla Massoneria, spiegando di non averla mai considerata contraria alla fede religiosa e si dichiarò pronto ad andare a Roma, purché munito di salvacondotto. E a Roma, al cardinale Ignazio Boncompagni Ludovisi, il 25 marzo 1789 scrive il vescovo di Trento, sostenendo che Cagliostro si è ravveduto e che la moglie «se ne vive in continui mentali spasimi, ardendo da un canto di costì rivedere il cadente quasi ottuagenario genitore, e dall’altro temendo che l’intollerante consorte non torni, non esaudito, nel pristino disordine, con evidente pericolo di perdervi l’anima». E al vescovo trentino il cardinale rispose il 4 aprile che «non avendo il signor Cagliostro alcun pregiudizio nello Stato Pontificio, non ha Egli bisogno del salvacondotto».
Rassicurato da questa lettera e comunque provvisto di un salvacondotto rilasciatogli dal vescovo Thun, oltre che di lettere di raccomandazione indirizzate a cardinali romani, il 17 maggio Cagliostro parte da Trento con Lorenza e dopo dieci giorni sono a Roma.
Alloggia dapprima in una locanda di piazza di Spagna e poi presso parenti della moglie a Campo dei Fiori. Se il suo scopo era quello di ottenere un’udienza dal papa, non fu accontentato e si comportò inizialmente con molta prudenza, come sapesse di essere spiato e temesse improvvisi pericoli; pensò anche di tornare in Francia, e a questo scopo indirizzò un Memoriale all’Assemblea francese che fu sequestrato, non appena consegnato alla posta, dalla gendarmeria romana.