“Do di matto” affonda le proprie radici nel blues, nella psichedelia anni ’70, nel progressive inglese e nel più recente mondo grunge. Non mancano riferimenti a band quali Led Zeppelin, Deep Purple e alle suite rock italiane i di gruppi quali BMS e PFM. I temi toccati ruotano intorno al concetto di amore analizzato in tutte le sue possibili dinamiche evolutive.
Seguendo le “tracce”…
- Identità – Il primo singolo estratto, un manifesto contro l’ipocrisia, che valorizza invece la scelta della propria essenza senza mai scendere a compromessi.
- Maledetto amore – un brano che fa l’occhiolino al classic rock anni ‘70 seppur arrangiato in chiave decisamente moderna.
- Libera – È un inno alla sensualità, alle vertigini ormonali del rolling eyes, dove l’uomo e la donna sono schiavi dei loro umori e delle loro voleri.
- Occhi di megera – Il pezzo strizza l’occhio all’acidità delle sonorità anni ‘90 rifacendosi a gruppi come pearl jam, sound garden.
- Pioggia – è un brano dall’insolito ritornello swing, che contrasta con la malinconia straziante del testo. La canzone parla della fine di un amore e del ricostruirsi dell’uomo abbandonato. Momenti di nostalgia si alternano a veri sbalzi d’orgoglio, in cui il protagonista non sa ancora da che parte porsi. È solo nella pioggia, ricorda la sua donna perduta ed affronta i demoni della malinconia, della lontananza, creando infine un suo nuovo io, una sua nuova personalità, risorgendo dalle ceneri e brandendo un metaforico fucile, riconoscendo un metaforico fucile, che lo proteggerà dalle delusioni future… più forte nell’animo, più forte nello spirito, finendo quasi per non riconoscersi più.
- La rosea aurora – Un brano che richiama le ballad anni ottanta. Immagini tenere di colori pastello. Il testo è struggente, con l’amore come unico protagonista.
- Vivere in eterno – Questo pezzo sembra invece sospeso nell’aria, quasi fuori contesto, come una melodia eterna che parla di un amore tragico e perduto, lontano eppur vicino.
- T tu can un chiagne – unica cover presente, brano della cultura classica napoletana che ricorda le radici partenopee del cantante sangiorgese. Il brano è arrangiato in chiave puramente rock, preciso, la voce di Borghese è evocativa e ricorda gli shvà lunghi, quasi sospirati di un maturo Tim Buckley, fusi alla rabbia di un ancora arrabbiato e malinconico Eddie Vedder.
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