Storia di fantasia tratta da un mondo vero. Il romanzo di Davide Latini dal titolo “Il cacciatore di miele e la tigre del Bengala” (edizioni Haiku, 2021) apre l’immaginazione al cuore pulsante dell’Asia meridionale. Le Sundarbans, la più grande foresta di mangrovie del pianeta.
È lo stesso autore a ricordarne in una nota la cronistoria: «La foresta è famosa in tutto il mondo perché vive la tigre del Bengala, un animale bellissimo ma anche particolarmente feroce, con la fama di essere un mangiatore di uomini. La foresta è meno famosa per essere luogo di raccolta di miele selvatico, quello che i residenti chiamano l’“oro liquido”. Ogni anno circa cento uomini, che per vivere non hanno altra possibilità se non quella di rischiare la vita avventurandosi nella foresta, vengono uccisi dalle tigri».
Un vissuto altamente inquietante da cui scaturiscono la penosa esistenza delle mogli delle vittime, le cosiddette “vedove delle tigri”, il clima di terrore che i pirati riuscivano a infliggere fino a qualche anno fa tra gli abitanti delle Sundarbans, e in ultimo la fuga di molti di loro per approdare alla misera vita delle baraccopoli di Dacca.
Chi scrive ha cognizione dei luoghi narrati. Davide Latini, originario di Prato, abita a Riccione ma ha vissuto e lavorato per tredici anni in Asia in qualità di buyer di una grossa azienda commerciale. Questa sua seconda opera, dopo “Un dio perdente” (Efesto, 2019), nasce dallo studio delle condizioni sociali in cui versano gli abitanti delle Sundarbans, il terrificante e caleidoscopico sistema che l’autore cerca di svelare anche attraverso una serie di articoli messi a corredo del suo racconto.
“Il cacciatore di miele e la tigre del Bengala” è una narrazione dal titolo ottocentesco con una trama altamente contemporanea, intensa, spietata e allo stesso tempo disincantata e ricca di umanità. Il protagonista è Roni, un giovane cacciatore di miele delle Sundarbans che tra paure, violenze e grande povertà, combatte per la sopravvivenza di se stesso e della propria famiglia. La sua è una lotta contro le minacce della foresta, quindi le tigri, i serpenti, i coccodrilli, ma anche contro chi cerca di speculare sull’esistenza altrui, contro quegli uomini che possono rivelarsi più pericolosi delle belve.
Ecco perché Antonello Costa in una recensione al testo pubblicata su “L’incendiario” richiama l’attenzione sulla molteplicità del ruolo del vero carnefice: «Chi è la vera tigre? Chi è la vera belva? Domanda ecolalica, che rimbombava nelle stanze della mia mente, mentre mi inoltravo nella lettura de Il cacciatore di miele e la tigre del Bengala […] La prima tigre che ho individuato è la tigre del Bengala, annunciata dal titolo. […] La seconda tigre del romanzo è umana, è una bestia che non è più affamata di carne, ma di denaro. […] La terza tigre è un istinto interiore, è un sentimento vendicativo, impossibile da placare. […] La quarta tigre è solo esterna, è il mondo che non permette a chi è povero di vivere una vita senza tigri». È la legge del più forte, il duro volto di una realtà che alla fine abbraccerà Nasima, la sorella di Roni, destinata a vivere in uno dei tanti tuguri della capitale del Bangladesh.
Il romanzo di Davide Latini penetra nel tessuto pulsante delle mangrovie asiatiche volteggiando in una tragica giostra fatta di belve e uomini. La scrittura è schietta ed entra in modo efficace nel dramma esistenziale di chi combatte portando con sé sentimenti familiari e meravigliosi miti che, come ricorda l’autore, “sono storie capaci di regalarci morali illuminanti e farci riflettere sui valori della vita”.